Perché la vera posta in gioco nei GDR non è narrativa vs simulazione, ma la credibilità del mondo che stiamo creando insieme
Introduzione
Durante una conversazione su Ruolatori Solitari, un partecipante ha posto una domanda apparentemente semplice ma in realtà molto ricorrente: come si gestisce la morte dei personaggi nei giochi di ruolo simulativi? Il confronto tra sistemi cosiddetti “narrativi” e “simulativi” era al centro della questione, con una lista di opzioni per affrontare il momento in cui un personaggio muore a causa di tiri sfortunati o situazioni difficili.
La risposta che ho dato, in mezzo a tante riflessioni tecniche, è stata netta:
“La distinzione tra ‘narrativo’ e ‘simulativo’ è un falso problema che ci hanno raccontato e in cui hanno creduto in troppi. Il punto fondamentale è se sei conseguente con la fiction in corso (gioco emergente) o se stai seguendo un canovaccio (railroading).”
Questa affermazione nasce da anni di esperienze, riflessioni e sperimentazioni con giochi di ogni tipo. Non è una semplice provocazione, ma un invito a riformulare la domanda in modo più utile: non si tratta tanto di che tipo di gioco stiamo giocando, ma di come ci relazioniamo alla fiction che sta emergendo al tavolo.
In questo articolo cercherò di approfondire proprio questo punto: perché la distinzione tra “narrativo” e “simulativo” è fuorviante, e cosa significa davvero prendere sul serio la coerenza della fiction condivisa, soprattutto quando si tratta di eventi drastici come la morte di un personaggio.
La falsa dicotomia: “narrativo” vs “simulativo”
Nel discorso sul gioco di ruolo si è diffusa, negli anni, una distinzione apparentemente utile: da una parte i giochi “narrativi”, dall’altra quelli “simulativi”. I primi, si dice, privilegerebbero il racconto, la coerenza drammatica e la costruzione condivisa della trama. I secondi, invece, punterebbero a rappresentare un mondo coerente con sé stesso, con regole che trattano i personaggi come entità soggette a conseguenze dure, compresa la morte.
Questa distinzione ha avuto una certa utilità storica per classificare approcci diversi al design e all’esperienza di gioco, ma ha finito per diventare una gabbia concettuale. Spesso viene usata come scorciatoia per giustificare o liquidare una certa scelta al tavolo: “è un gioco narrativo, quindi ha senso evitare la morte con una svolta di trama”, oppure “è un gioco simulativo, quindi il personaggio muore senza appello”. Ma queste affermazioni saltano a piè pari il vero centro della questione: cosa stiamo cercando di fare insieme mentre giochiamo?
In realtà, la distinzione “narrativo vs simulativo” confonde il tipo di regole con il modo in cui vengono applicate dai giocatori. Un sistema può avere regole dure e coerenti, ma essere giocato con grande attenzione alla fiction condivisa. Un altro può offrire ampio spazio alle svolte narrative, ma essere usato in modo meccanico, privo di ascolto reciproco.
Ridurre la discussione a questa dicotomia vuol dire ignorare che ogni partita è, in fondo, un processo emergente: una narrazione che nasce dalle scelte, dai fallimenti, dalle sorprese e dalle intenzioni dei partecipanti, non da un’etichetta sul manuale. E soprattutto, vuol dire ignorare che la coerenza di ciò che accade dipende da come i giocatori interpretano e rispettano la fiction che stanno costruendo, e non solo da quale sistema stanno usando.
Il vero discrimine: coerenza con la fiction emergente
Al cuore dell’esperienza di gioco di ruolo non c’è un genere di regole, ma un processo: la costruzione collettiva e situata di una fiction emergente. Con “fiction emergente” si intende una narrazione che non è scritta in anticipo, né prevista nei suoi snodi principali, ma che prende forma in tempo reale attraverso l’interazione tra personaggi, ambiente, scelte e conseguenze. È il risultato dinamico di ciò che accade al tavolo – e non il prodotto di uno script o di un’intenzione narrativa predefinita.
In questo contesto, la morte di un personaggio non è un evento da gestire secondo un genere di gioco, ma da valutare in base alla coerenza interna della fiction che si sta sviluppando. Morire in un dungeon senza nome per una trappola casuale può essere perfettamente sensato se quel tipo di mondo è stato costruito come letale e indifferente. Allo stesso modo, sopravvivere in extremis può essere credibile in un mondo che premia la resilienza o l’intervento del destino, se queste forze sono state stabilite come parte del gioco.
Non importa tanto che tipo di regole stai usando, ma come le applichi nel momento in cui devono produrre significato. Se la morte avviene per puro automatismo, senza che il gruppo si fermi a interrogarsi sul senso che ha in quel momento, si rischia di sabotare l’integrità della fiction. Allo stesso modo, se viene evitata solo per “non rovinare la storia”, senza un ancoraggio alla logica interna dell’evento, si produce un effetto altrettanto straniante.
Giocare in coerenza con la fiction emergente significa quindi prendersi la responsabilità di ascoltare ciò che la fiction sta dicendo, e agire di conseguenza: non perché “le regole lo dicono” o “la storia ne ha bisogno”, ma perché quello che sta succedendo ha senso, peso, conseguenze, tensione e impatto nel mondo immaginato.
Questa responsabilità è condivisa da tutto il tavolo. È qui che il gioco di ruolo si distingue da qualsiasi altra forma narrativa: nessuno scrive da solo, e nessuno decide da solo. Ogni evento – morte compresa – è un nodo da sciogliere insieme, senza scorciatoie concettuali.
Esempio: Morire nella fiction emergente
In una campagna OSR, un personaggio si avventura in una tomba dimenticata. Il dungeon è stato presentato fin dall’inizio come crudele, pieno di trappole inaspettate e magie antiche. Dopo una scelta affrettata, il personaggio attiva un meccanismo e viene trafitto da dardi avvelenati. I dadi parlano chiaro: morte istantanea.
Il gruppo non contesta il risultato. Non perché “così vuole il regolamento”, ma perché tutto nella fiction aveva preparato il terreno per una morte del genere: l’atmosfera tesa, la posta in gioco, la solitudine dell’azione. Nessuno ha bisogno di salvarlo con un colpo di scena: quella morte ha senso. È un monito, un punto di svolta, e il gioco prosegue con un altro personaggio che trova il corpo e raccoglie il diario del compagno perduto.
Al contrario, in un gioco FitD in cui una banda di ladri urbani viene colta in una trappola, i giocatori usano un Flashback per giustificare un piano di fuga alternativo: non per “evitare la morte perché è un gioco narrativo”, ma perché la fiction che stanno costruendo è fatta di colpi di scena e audacia criminale, e il sistema offre strumenti per esplorare proprio questo tipo di coerenza.
Conseguenze pratiche: morire (o non morire) nel gioco
Tornando alla domanda iniziale, Enrico proponeva quattro strategie per affrontare la morte di un personaggio in un gioco “simulativo”: accettarla e ricominciare (“embrace the suck”), tornare indietro (“retcon”), piegare le regole (“bend the rules”) o trovare un’altra soluzione. Ma se adottiamo il punto di vista della fiction emergente, non tutte queste opzioni sono equivalenti. Anzi: alcune minano alla base la credibilità della fiction condivisa.
“Embrace the suck” è, in molti casi, la scelta più rispettosa della fiction che si sta costruendo. Se un personaggio muore a causa delle scelte fatte, delle circostanze stabilite al tavolo e delle conseguenze accettate, quella morte non solo ha senso, ma rafforza la coerenza interna del mondo immaginato. Morire può essere tragico, ma anche profondamente significativo.
Al contrario, il “retcon” – tornare indietro per cambiare quanto appena accaduto – rompe il patto di causalità che rende il gioco di ruolo qualcosa di vivo e interessante. Quando si riscrive ciò che è già accaduto, si dichiara implicitamente che gli eventi non hanno davvero peso, che le scelte possono essere cancellate. Non è una forma di “cura” della fiction, ma una negazione della sua natura emergente. Se ogni cosa può essere riscritta in base a come ci si sente, allora nulla è davvero accaduto.
Anche “bend the rules” rischia di produrre lo stesso effetto. Se un personaggio “sarebbe morto, ma invece…” viene salvato da una deviazione improvvisata o da un’aggiunta posticcia – magari per paura di rovinare il divertimento o perché “è troppo presto per farlo uscire di scena” – si sta comunicando che le regole valgono solo finché non ci dispiacciono. Questo svuota di tensione ogni pericolo successivo, e mina la fiducia nel mondo condiviso. Una fiction in cui le conseguenze possono essere eluse arbitrariamente non è più una fiction: è un teatrino.
Salvare i personaggi a tutti i costi? Attento alle ricadute
Ogni volta che si evita la morte “perché non era il momento”, si lancia un messaggio implicito: le conseguenze sono negoziabili. Ma la tensione e il significato emergono proprio dal fatto che non tutto è sotto controllo.
L’unica “soluzione alternativa” che regge davvero è quella che si costruisce dentro la fiction, non al di sopra di essa: l’intervento di un PNG, un salvataggio credibile, un destino peggiore della morte. Ma solo se già inscritto nella logica interna del mondo, non aggiunto in corsa come toppa narrativa.
Essere coerenti con la fiction emergente significa accettare che le scelte abbiano peso, anche quando fanno male. Anzi: soprattutto quando fanno male.
Quando la coerenza si rompe: tre esempi negativi
1. Il retcon che cancella tutto
Durante una campagna fantasy con toni gravi e realistici, un personaggio muore per una decisione avventata. Dopo alcuni minuti di disagio, il gruppo decide di “riavvolgere” la scena, dichiarando che in realtà nessuno aveva attivato la trappola e che tutto era stato “solo un sogno”. L’effetto? La tensione scompare, la minaccia perde forza, e da quel momento ogni pericolo sembra negoziabile.
2. Il salvataggio posticcio
In un gioco investigativo cupo e atmosferico, un PNG misterioso salva il personaggio all’ultimo secondo, senza essere mai stato introdotto prima. Non c’era traccia di lui nella fiction, né indizi o costruzione che lo giustificassero. La scena si chiude con un senso di frustrazione: ciò che sembrava un mondo coerente ora ha buchi evidenti, e il gruppo fatica a prendere sul serio gli eventi successivi.
3. Il colpo di scena fuori tono
In un’avventura survival horror, un personaggio viene sbranato da una creatura. Ma pochi istanti dopo “si risveglia in un laboratorio segreto, clonato e vivo”, grazie a una tecnologia mai menzionata. Il tono della campagna viene stravolto in un attimo: da esperienza intensa e cruda, si scivola in un registro pulp che nessuno aveva scelto. I giocatori non protestano apertamente, ma l’entusiasmo si spegne.
Quando la coerenza dà forza alla fiction: tre esempi positivi
1. La morte annunciata e accettata
In una campagna OSR ambientata in una terra maledetta, il gruppo sa fin dall’inizio che ogni passo può essere l’ultimo. Un personaggio rimane indietro per coprire la fuga degli altri, affrontando da solo un orrore sotterraneo. Non ci sono discussioni, né pietà: i dadi parlano, e la morte è definitiva. Ma il suo gesto diventa una leggenda nel mondo di gioco, e gli altri personaggi ne portano memoria nelle scelte future. Nessuno ha barato, e proprio per questo il momento resta inciso nella fiction.
2. La conseguenza che supera la morte
Durante una campagna dark fantasy con elementi soprannaturali, un personaggio viene ferito mortalmente, ma invece di morire “esce dal mondo” e diventa uno spirito vincolato al luogo della sua caduta. Il gioco non piega le regole, ma le estende con coerenza, basandosi su elementi già stabiliti: il culto dei morti, le reliquie, i legami magici. La fiction non si spezza, si trasforma – e diventa più profonda.
3. Il sacrificio scelto, non imposto
In un gioco post-apocalittico a turni alterni tra presente e passato, un personaggio affronta una situazione disperata. I giocatori, invece di tirare i dadi, decidono insieme di concludere l’arco narrativo con un gesto di sacrificio, coerente con quanto emerso in gioco. Nessuna regola impone quella fine, ma nessuno vuole evitarla. Il gioco è libero, ma la coerenza interna ha parlato: morire, lì e in quel modo, è la cosa giusta da fare.
Coerenza come bussola: decidere insieme che mondo stiamo giocando
Se c’è un filo rosso che lega tutti gli esempi positivi emersi finora, è la presenza di un mondo condiviso che ha coerenza, peso, tono riconoscibile. Un mondo dove gli eventi – anche quelli brutali – non sembrano arbitrari, ma inevitabili nella logica della fiction. Questa coerenza non è solo estetica: è la base stessa dell’immersione, del coinvolgimento emotivo, della fiducia reciproca tra i giocatori.
Ma quella coerenza non nasce da sola. Va coltivata, negoziata, mantenuta. Non serve un contratto sociale formale, ma serve attenzione costante a ciò che accade e a come ci rapportiamo a ciò che accade. Serve chiedersi:
“In che tipo di mondo stiamo giocando?”
“Che conseguenze hanno davvero le nostre scelte?”
“Cosa significa morire, qui, ora?”
A quel punto, la risposta non sarà mai automatica. Non sarà “è un gioco narrativo, quindi sopravvive” o “è un gioco simulativo, quindi muore”. Sarà invece la risposta che ha senso per tutti al tavolo, dentro la logica del mondo che si è costruito. Questo è il cuore della fiction emergente: non l’illusione di libertà narrativa, ma la pratica concreta della consequenzialità condivisa.
Non decidere come andrà a finire. Decidi che tutto ciò che succede, avrà delle conseguenze.
La bellezza del gioco di ruolo non sta nel “controllare la storia”, ma nel camminare insieme dentro un mondo che può sorprenderti, sfidarti, cambiare te e i tuoi personaggi. La morte ha senso solo se fa parte di questo cammino.
Conclusione: la morte è reale solo in mondi che prendiamo sul serio
La morte, nel gioco di ruolo, non è un problema da evitare né un evento da gestire tecnicamente. È una prova del nove: ci mostra se il mondo che stiamo costruendo insieme è vivo o solo una scenografia. Se le scelte hanno davvero peso, o se tutto è reversibile, riscrivibile, vuoto.
Abbandonare la dicotomia “narrativo vs simulativo” ci libera da una falsa alternativa. Non si tratta di scegliere tra la coerenza delle regole o quella della storia: si tratta di onorare la coerenza della fiction emergente, cioè quel patto implicito che dice che ogni azione, ogni decisione, ogni tiro di dado conta davvero, perché cambia qualcosa nel mondo condiviso.
Essere fedeli a questo patto vuol dire accettare la possibilità della morte – non come punizione, ma come parte del viaggio. E vuol dire anche saper dire “no” alle soluzioni facili, ai ripensamenti dell’ultimo minuto, ai salvataggi fuori tono. Perché la posta in gioco, alla fine, non è la sopravvivenza di un personaggio, ma la credibilità di tutto ciò che stiamo creando insieme.
Giocare con questo tipo di consapevolezza non rende le partite più cupe o punitive. Al contrario: le rende più libere, più vere, più memorabili. Perché in un mondo dove si può morire davvero, si può anche vivere sul serio.