Dal pensiero critico al dogma
1. Introduzione: Il fascino delle etichette, il limite delle gabbie
Nel mondo del gioco di ruolo, come in molte comunità creative, è forte la tentazione di spiegare tutto con una teoria elegante. Dare nomi ai fenomeni, tracciare confini, ordinare il caos della pratica ludica in un sistema coerente: è un impulso comprensibile. Teorizzare il GDR non è di per sé un errore. Ma quando la teoria diventa gabbia, quando pretende di incasellare l’infinita varietà delle esperienze in schemi rigidi, allora smette di essere uno strumento e diventa un ostacolo.
La teoria GNS – Gamism, Narrativism, Simulationism – è forse l’esempio più emblematico di questo paradosso. Nata con l’intenzione di spiegare le diverse “agende creative” dei giocatori, si è imposta per anni come una lente dominante nel dibattito sul design e sull’esperienza di gioco. Per alcuni, ha rappresentato una rivelazione: finalmente un modo per capire perché certi gruppi si fratturano, perché certi giochi sembrano “funzionare” meglio di altri. Ma per molti altri, è stata una barriera. Una grammatica imposta, che ha ridotto la complessità del gioco a tre categorie esclusive e rigide, pretendendo che ogni gioco, ogni tavolo, ogni persona potesse essere spiegata in base a una di esse.
Questa pretesa di universalità ha avuto un prezzo. Non solo ha oscurato altri modelli più flessibili e pragmatici, ma ha anche alimentato un clima di polarizzazione e di giudizio. Interi generi di giochi sono stati dichiarati “incoerenti”. Interi stili di gioco bollati come “immaturi” o “devianti”. Le etichette, invece di chiarire, sono diventate armi. In nome della teoria, si è smarrito il gioco.
In questo articolo non ci limiteremo a criticare la teoria GNS. Ne prenderemo le distanze con decisione, ma anche con il riconoscimento del suo ruolo storico. Il nostro intento è mostrare come oggi esistano strumenti più ricchi, più aperti e più aderenti alla realtà viva del gioco. Perché il gioco di ruolo non è un campo di battaglia tra agende creative in competizione. È un’arte ibrida, situata, contraddittoria, spesso incoerente – ed è proprio lì che risiede la sua forza.
Il tempo delle ortodossie è finito. È ora di andare oltre la GNS.
2. L’illusione di una teoria universale
Ogni volta che qualcuno propone un modello per spiegare l’intera varietà del gioco di ruolo, dovrebbe chiedersi: sto davvero descrivendo la realtà o sto forzando le cose a entrare in un sistema che mi rassicura? La teoria GNS nasce da una di queste ambizioni totalizzanti. Affermava che ogni partita, ogni sistema, ogni stile di gioco si potesse ricondurre a una delle tre “agende creative” fondamentali: Gamism (sfida e competizione), Narrativism (costruzione di storie tematiche), Simulationism (immersione e coerenza interna del mondo immaginato). Era, insomma, una teoria che pretendeva di spiegare tutto il gioco di ruolo.
Ma questa pretesa non regge. Per quanto affascinante possa apparire, l’idea di una tassonomia completa ed esaustiva si scontra subito con l’esperienza concreta al tavolo: quella fatta di momenti che sfuggono alle etichette, di pratiche miste, di motivazioni che cambiano anche all’interno di una singola sessione. Un gruppo può passare con naturalezza da un combattimento altamente tattico a una scena carica di tensione drammatica, per poi immergersi nella descrizione minuziosa di un ambiente o nella simulazione delle sue implicazioni logiche. Secondo GNS, tutto questo sarebbe “incoerente”. Secondo chi gioca, è semplicemente divertente.
La visione proposta da GNS è costruita sull’assunto arbitrario che esistano soltanto tre modi legittimi di concepire il gioco. È una riduzione, non una spiegazione. E come tutte le riduzioni, finisce per deformare ciò che descrive. Invece di offrire un linguaggio utile, impone un filtro. Tutto ciò che non rientra nei tre angoli del triangolo viene scartato, ignorato o mal interpretato. Il gioco diventa un campo di battaglia ideologico, dove si deve scegliere da che parte stare.
Il problema non è solo teorico, è anche pratico. Costruire un gioco su queste basi significa limitare in partenza le possibilità del design. Significa chiedersi non “che esperienza voglio offrire?” ma “quale agenda sto servendo?”. È un approccio che rischia di ingabbiare la creatività, anziché liberarla.
Nel tempo, questo schema si è dimostrato incapace di descrivere la varietà reale delle motivazioni dei giocatori, delle forme di interazione, dei contesti di gioco. Ha confuso l’analisi con la prescrizione, l’astrazione con la realtà. E come tutte le teorie che pretendono di spiegare tutto, è crollata sotto il peso delle eccezioni.
3. Il costo dell’esclusività: quando la teoria divide
Ogni teoria porta con sé un’ideologia, anche quando finge di essere neutra. Nel caso della GNS, l’ideologia era chiara: esiste un modo corretto di progettare e vivere il gioco, e gli altri sono errori. Il concetto di “coerenza dell’agenda creativa”, centrale nella teoria, non era solo descrittivo – era anche normativo. Un gioco che non aderiva a un’agenda pura veniva etichettato come incoerente, fallimentare, persino dannoso. Un gruppo di gioco che mescolava elementi gamistici, narrativi e simulativi diventava, agli occhi della teoria, un esempio di disfunzione.
Ma chi decide cosa sia funzionale in un gioco che nasce proprio dalla libertà di inventare, mescolare, reinventare? Chi ha il diritto di stabilire che l’ibridazione sia un errore e non, al contrario, una ricchezza?
Questa postura esclusiva ha avuto conseguenze culturali profonde. La teoria GNS ha alimentato una frattura ideologica all’interno della comunità dei giocatori e dei designer. Da un lato, una ristretta élite teorica che promuoveva un approccio “puro” e coerente; dall’altro, la maggioranza silenziosa di giocatori che continuava a divertirsi con giochi “impuri”, ibridi, complessi, e che si è trovata improvvisamente accusata di giocare male. Invece di offrire strumenti per comprendersi a vicenda, la teoria è diventata un linguaggio di esclusione.
Le conseguenze non si sono limitate al piano astratto. Molti giochi tradizionali, come Dungeons & Dragons, Vampire: The Masquerade, o Call of Cthulhu, sono stati bollati come “incoerenti” da chi abbracciava GNS, suscitando reazioni comprensibilmente ostili. I giocatori si sono sentiti attaccati non solo nei gusti, ma nella legittimità della propria esperienza. Non era più una teoria: era un sistema di giudizio. Un tribunale che decideva chi stava “giocando giusto” e chi stava sprecando tempo.
Il prezzo di questa esclusività è stato alto: ha generato un clima tossico di contrapposizione, alimentato discussioni sterili, isolato i teorici dal resto della comunità. Invece di favorire il dialogo, ha eretto barriere. E quando una teoria non unisce ma divide, forse è tempo di rimetterne in discussione le fondamenta.
4. Il paradosso del realismo: una categoria-cestino
Di tutte le tre categorie della teoria GNS, la più ambigua e problematica è senza dubbio il Simulationism. Presentato come una delle tre “agende creative” fondamentali, in teoria dovrebbe rappresentare quel modo di giocare incentrato sull’esplorazione coerente di un mondo immaginario, sul realismo interno, sulla verosimiglianza delle conseguenze. Ma nella pratica, il Simulationism è diventato la categoria-cestino: tutto ciò che non rientrava negli altri due ambiti – la sfida strutturata del Gamism o la creazione tematica del Narrativism – veniva parcheggiato lì.
Qualsiasi gioco tradizionale che non si concentrasse sulla vittoria o sull’esplorazione di un tema veniva etichettato come “simulationist” per esclusione, spesso con un tono implicitamente svalutativo. Non importava che quel gioco fosse, ad esempio, profondamente narrativo nel senso comune del termine, oppure che i suoi giocatori cercassero immersione emotiva più che coerenza logica: per GNS, era simulationism. Come se “non essere abbastanza narrativisti” o “non essere abbastanza gamisti” fosse una colpa.
Questa categoria ambigua non ha solo confuso i giocatori, ma ha reso l’intera teoria intrinsecamente instabile. Se un terzo della tua tassonomia funziona come una sorta di contenitore residuale, qualcosa non sta funzionando. E infatti, le definizioni stesse di Simulationism sono cambiate più volte nel tempo, in un tentativo evidente di salvare la struttura della teoria dalle sue incoerenze interne.
Ma una teoria che deve essere continuamente riformulata per spiegare i propri esempi fallisce nel suo scopo. Peggio ancora, quando la riformulazione serve a mantenere in piedi la tripartizione a ogni costo, diventa chiaro che la struttura è più importante della comprensione. Invece di aiutare a leggere il gioco reale, il Simulationism finisce per oscurarlo, banalizzarlo, ridurlo a ciò che la teoria può contenere, e non a ciò che il gioco realmente è.
Il paradosso, infine, è che la categoria che avrebbe dovuto rappresentare la massima aderenza alla coerenza interna diventa la più incoerente della teoria. Il Simulationism, così come costruito nella GNS, non è una vera agenda: è un’etichetta residuale, e come tutte le etichette forzate, dice più sulla teoria che sulla realtà che pretende di spiegare.
5. Le persone giocano per più di tre motivi
La teoria GNS parte da un presupposto tanto seducente quanto ingenuo: che i giocatori si muovano secondo una singola motivazione dominante, un’agenda creativa univoca. Ma basta sedersi a un qualsiasi tavolo di gioco per vedere quanto questo assunto sia lontano dalla realtà. Le persone non giocano solo per vincere, solo per raccontare una storia o solo per immergersi in un mondo immaginario. Giocano per un intreccio personale e mutevole di motivazioni: il desiderio di esprimersi, di stupirsi, di condividere, di esplorare, di emozionarsi, di rilassarsi, di sorprendersi.
Lo confermano non solo l’esperienza, ma anche le indagini empiriche. I dati raccolti da Wizards of the Coast sul finire degli anni ’90, ad esempio, mostrarono chiaramente che i giocatori attribuiscono valore a molteplici dimensioni del gioco: la narrazione, la tattica, la progressione del personaggio, l’espressione creativa, l’interazione sociale. Non solo queste dimensioni coesistono, ma spesso si intrecciano nella stessa sessione, nello stesso giocatore.
Modelli alternativi più flessibili – come quello dei sette tipi di giocatori di Robin D. Laws o la vecchia classificazione in quattro stili di Glenn Blacow – hanno riconosciuto fin da subito che i giocatori non sono incasellabili in compartimenti stagni. Hanno posto l’attenzione non su ciò che il gioco “deve essere”, ma su ciò che i giocatori cercano: una prospettiva orientata all’ascolto e alla varietà, anziché alla teoria pura.
Questi approcci non hanno bisogno di dogmi. Non affermano che un gioco deve servire una sola funzione per funzionare, ma offrono strumenti per capire le persone sedute al tavolo, e per creare esperienze che parlino a più di un tipo di desiderio. Alcuni vogliono una sfida tattica, altri un viaggio emotivo, altri ancora vogliono esplorare personaggi, ambienti o dilemmi morali. Spesso, questi desideri convivono nello stesso individuo. E, soprattutto, cambiano nel tempo.
Un sistema di gioco che riesce a offrire spazio a queste molteplicità non è “incoerente”. È ricco. È inclusivo. È vivo.
L’errore più grave della teoria GNS è stato ignorare questa verità semplice e umana: le persone giocano per più di tre motivi. E non smetteranno mai di farlo, per fortuna.
6. Teorie alternative, approcci migliori
Se GNS ha fallito nel descrivere adeguatamente la complessità del gioco di ruolo, non è perché ogni teoria è destinata a fallire. È perché alcune teorie pretendono di sostituirsi all’esperienza, mentre altre nascono per ascoltarla. Ed è a queste ultime che dobbiamo guardare per andare oltre la rigidità delle classificazioni a tre.
Molti modelli alternativi, elaborati prima o dopo l’ascesa della GNS, hanno scelto un approccio più aperto e descrittivo. Il modello dei quattro stili di Glenn Blacow, ad esempio, identificava già nel 1980 diverse modalità di fruizione del gioco (guerra, storia, ruolo, potere) senza alcuna pretesa di esclusività, né superiorità di una sull’altra. Non imponeva gerarchie, non giudicava “corretto” o “coerente” un approccio rispetto a un altro: si limitava a osservare ciò che accadeva davvero ai tavoli.
Allo stesso modo, il sistema dei sette tipi di giocatori di Robin D. Laws non cerca di classificare i giochi, ma le motivazioni dei giocatori: dal butt-kicker al narratore, dal tattico al metod-attore, fino al giocatore casuale o allo specialista. È un modello pratico, pensato per aiutare i Game Master a capire chi ha davanti e come farli divertire, non per difendere una tesi o un’estetica.
Esistono poi approcci ancora più flessibili, come il framework MDA (Mechanics–Dynamics–Aesthetics), che ha trovato ampia applicazione nel game design. Qui si analizza l’esperienza del gioco in base a ciò che produce nel giocatore: sfida, narrazione, scoperta, espressione, immersione, cooperazione, ecc. Questo modello, seppur non nato per il GDR, si adatta perfettamente alla pluralità del medium. Permette di pensare il design come uno spazio multidimensionale, dove le diverse esperienze possono essere combinate, potenziate o bilanciate, senza doverle escludere a priori.
Questi approcci condividono un presupposto semplice: non esiste un solo modo giusto di giocare, né una sola via corretta per progettare un gioco. Non chiedono fedeltà ideologica, ma offrono strumenti. Non dettano leggi, ma costruiscono mappe.
E la cosa più importante è che non cercano di cambiare i giocatori. Cercano di capirli.
7. Il retaggio della GNS: una lezione da non dimenticare
Nonostante i suoi limiti, la teoria GNS ha lasciato un’impronta indelebile nel discorso sul gioco di ruolo. Non perché fosse corretta – oggi sappiamo quanto fosse parziale e divisiva – ma perché ha avuto il coraggio di porre una domanda fondamentale: “Cosa rende significativo il nostro modo di giocare?” In questo, ha avuto un merito storico. Ha spinto una parte della comunità a interrogarsi, a progettare in modo più consapevole, a confrontarsi – anche se spesso lo ha fatto con toni dogmatici e metodi discutibili.
Ma ogni teoria, anche quando fallisce, può insegnare qualcosa. La GNS ci ricorda quanto sia facile confondere la mappa con il territorio. Quanto sia forte la tentazione di ridurre la complessità a categorie nette, di cercare coerenza dove invece fiorisce la contraddizione. Ci mostra anche quanto una teoria possa diventare un campo di battaglia culturale, quando smette di essere strumento e diventa ortodossia.
La vera lezione, però, è un’altra: il gioco di ruolo è più grande di qualsiasi teoria. È un atto creativo collettivo, un’esperienza situata e viva, che cambia da tavolo a tavolo, da sera a sera, da persona a persona. Cercare di contenerlo in uno schema rigido è come cercare di imbottigliare il vento.
Oggi, quel tempo è finito. Le teorie che vogliono spiegare tutto con una singola chiave hanno perso credibilità. Non perché non abbiano nulla da dire, ma perché la comunità si è fatta più matura, più consapevole, più disposta a valorizzare la pluralità delle esperienze anziché forzarle dentro griglie concettuali.
Chi progetta giochi, chi li gioca, chi li analizza ha ora accesso a una varietà di strumenti più ricchi, più pratici, più rispettosi della realtà vissuta. La GNS può rimanere come documento storico, come traccia di una fase del discorso. Ma non può più guidarlo.
Il futuro del gioco di ruolo non ha bisogno di nuove ortodossie. Ha bisogno di ascolto, di curiosità, di contaminazione. Ha bisogno di modelli che sappiano flettersi, non imporsi. E di una comunità che sappia scegliere quali strumenti usare, e quando è il momento di lasciarli andare.
8. Conclusione: Oltre la mappa tracciata
Andare oltre la teoria GNS non significa rigettare ogni tentativo di comprendere il gioco di ruolo, né rinunciare al pensiero critico. Significa, piuttosto, rifiutare i modelli che pretendono di essere esaustivi, che riducono il molteplice all’univoco, che trasformano la varietà in deviazione. Significa riconoscere che il GDR non è un sistema chiuso, ma un linguaggio aperto, in continua mutazione, fatto di incontri, contesti, desideri, intuizioni.
La GNS è stata una mappa: utile per alcuni, ingannevole per altri, mai neutrale. Ha aiutato certi designer a orientarsi, ma ha anche fatto perdere l’orientamento a molti altri. Oggi, possiamo permetterci di guardare oltre quella mappa, di esplorare territori nuovi senza doverli sottomettere a una griglia predeterminata. Possiamo osservare i giochi per quello che fanno e non per come li categorizziamo. Possiamo ascoltare i giocatori per ciò che cercano, non per ciò che dovrebbero desiderare.
Chi progetta, chi gioca, chi facilita, chi racconta… tutti noi partecipiamo a un ecosistema di pratiche che non si lascia ridurre a tre etichette. Non abbiamo bisogno di teorie che ci dicano come giocare: abbiamo bisogno di strumenti che ci aiutino a scoprirlo insieme, ogni volta da capo.
Il gioco di ruolo è un atto di co-creazione. E come ogni gesto creativo, vive di tensioni, ibridazioni, ambiguità. È questo che lo rende potente, trasformativo, reale. Andare oltre la teoria GNS è un atto di liberazione: dal dogma, dalla semplificazione, dalla paura di non “giocare bene”. È un invito ad abbracciare la complessità, a inventare nuovi modi di pensare, nuovi linguaggi, nuove domande.
Perché alla fine, ciò che conta non è trovare la definizione perfetta. È continuare a esplorare. Insieme.