Nel panorama attuale dei giochi da tavolo e di ruolo, il contenuto non è più il re: è un’alluvione. Stiamo annegando in un mare di nuove uscite, con piattaforme come Kickstarter, Backerkit e simili che agiscono sia da diga che da imbuto. Dai nuovi sistemi alle guide d’ambientazione, dai manuali dei mostri ai pacchetti di mappe, l’assunto ormai è: se lo crei, lo finanzieranno.
Ma vorrei mettere in discussione questo presupposto. “Di più” non è intrinsecamente “meglio”. Anzi, potremmo essere vicini a una soglia critica—un punto in cui il flusso sempre crescente di progetti inizia a esaurire non solo il portafoglio del pubblico, ma anche la sua attenzione, la sua energia e la sua curiosità creativa.
Quando l’adattamento diventa un gioco di specchi
Prendiamo, ad esempio, il recente Kickstarter per The World of Paksenarrion, un’ambientazione per GdR adattata dai romanzi Deed of Paksenarrion di Elizabeth Moon. Questi libri, pur apprezzati da alcuni per il loro realismo militare e la narrazione a combustione lenta, sono rimasti una presenza relativamente modesta nel canone fantasy più ampio. Non sono best seller. Sono però nati dalla campagna personale di D&D dell’autrice—che lei ha trasformato in romanzi, che ora vengono riconvertiti in un’ambientazione da gioco.
Questo è, sotto ogni punto di vista, un ciclo affascinante. Ma solleva una domanda importante: che cosa stiamo davvero producendo qui? Un gioco? Un omaggio? Una simulazione di una simulazione?
Il risultato sembra meno una proposta creativa audace e più un’eco ricorsiva. Un gioco basato su libri basati su un gioco—non un mondo nuovo, ma una copia di seconda generazione.
Crowdfunding e l’ascesa della “fattoria di IP”
Il crowdfunding ha fatto cose meravigliose per la comunità dei giochi da tavolo. Ha dato potere a piccoli team, voci diverse, generi di nicchia e formati sperimentali. Ma ha anche introdotto una tendenza meno ispirante: la trasformazione della narrativa di genere e della cultura ludica in un’enorme fattoria di proprietà intellettuali.
Se prima le idee nascevano dal gioco e si affinavano in ambienti creativi, ora spesso sono confezionate fin dall’inizio come asset da marchio. Se è esistito, può essere riutilizzato. Se è stato giocato, letto o anche solo vagamente ricordato, può diventare un prodotto. La logica è semplice e cinica: qualsiasi IP con anche solo una traccia di memoria affettiva pregressa è oggi vendibile, meglio ancora con un’edizione deluxe cartonata, dadi in metallo e obiettivi extra.
Questo modello non è sostenibile.
Favorisce la riconoscibilità rispetto all’originalità, la nostalgia emotiva rispetto alla profondità narrativa, e l’estetica superficiale rispetto a sistemi significativi. Ciò che si perde in questo processo è meno visibile, ma non meno reale: la possibilità di coltivare mondi audaci e sconosciuti. Un tipo di worldbuilding che non si basa sulla familiarità o su una lore riciclata, ma che ti chiede di entrare in qualcosa di davvero nuovo e impararne la logica dall’interno.
Non stiamo solo vedendo nuovi contenuti—stiamo vedendo vecchi contenuti riconfezionati, rinominati e ripubblicati, fino al punto in cui la creatività che una volta alimentava l’hobby rischia di ridursi a una serie di ammiccamenti e battute per iniziati. C’è una sottile differenza tra onorare la tradizione e riproporla all’infinito. Il modello attuale pende decisamente verso la seconda opzione.
L’importanza del discernimento creativo
Chiariamo subito: questo non è un appello all’elitarismo o all’esclusione. I progetti personali, le ambientazioni di nicchia e le idee profondamente idiosincratiche sono il cuore pulsante del gioco di ruolo. Ma c’è una differenza tra espandere il confine creativo e semplicemente gonfiare la catena di produzione. Dobbiamo recuperare il valore del discernimento—sia come creatori che come sostenitori.
Cosa merita davvero di diventare un’ambientazione completa per campagne? Quali mondi offrono qualcosa di nuovo—a livello meccanico, narrativo, tematico? Cosa parla alle domande, ai giocatori e ai bisogni immaginativi di oggi?
Non ogni storia ha bisogno di diventare un box set. Non ogni scintilla di nostalgia deve essere monetizzata. E non ogni idea, per quanto amata in un angolino di internet, deve essere trasformata in canone.
Meglio > Di più
Questo non è un invito a ridurre la creatività. È un invito a renderla più profonda. Un promemoria che l’innovazione non coincide sempre con l’espansione. Che l’originalità, a volte, richiede contenimento. Che creare mondi non riguarda solo ciò che aggiungi—ma anche ciò che scegli di non inserire.
Non abbiamo bisogno di infinite versioni degli stessi cliché logori. Abbiamo bisogno di nuovi miti. Nuove strutture. Nuovi modi di pensare i mondi—non solo di allungare all’infinito quelli vecchi.
Di più non è sempre meglio. Meglio è meglio.
E come creatori, costruttori di mondi e giocatori, abbiamo il potere—e la responsabilità—di riconoscere la differenza.