Quando evitare il metagioco crea più danni che benefici
“Non mi piace interrompere l’atmosfera con discussioni offgame.”
“Preferisco non rompere il flusso.”
“Poi vediamo a fine sessione.”
Sono frasi che sentiamo spesso, dette con le migliori intenzioni. Il timore è sempre lo stesso: che parlare fuori gioco, anche solo per chiarire un dubbio o esprimere un disagio, rompa l’incanto. Che il gioco perda tensione, che l’immedesimazione si spezzi, che il momento si rovini.
Ma questa visione è pericolosa.
Perché confonde due piani distinti – quello della fiction e quello della comunicazione reale – e finisce per proteggere la narrazione a scapito del gruppo.
Immersione ≠ silenzio
Essere immersi in una storia non significa restare zitti a ogni costo.
L’immersione è una dinamica emotiva, non un vincolo comportamentale. Può coesistere con brevi interruzioni, chiarimenti, commenti laterali.
Anzi, spesso ne ha bisogno, perché aiuta a riallineare aspettative, intenzioni, toni.
L’idea che il flusso narrativo non vada mai spezzato è un mito da palcoscenico.
Funziona in un monologo teatrale, non in un gioco collettivo dove la coerenza si costruisce insieme.
E se nessuno può mai dire “aspetta un attimo”, allora stiamo facendo performance, non gioco di ruolo.
La fiction non è più importante delle persone
Un errore diffuso è pensare che “se la sessione sta andando bene, meglio non sollevare questioni”.
Ma cosa vuol dire “sta andando bene”?
Sta piacendo a tutti? Tutti sono a proprio agio? Nessuno si sente scavalcato, escluso, frainteso?
Se non c’è spazio per dirlo durante la sessione, allora non lo sapremo mai.
E se lo sapremo dopo, potrebbe essere troppo tardi.
Meglio una breve pausa per chiarire che due ore a covare disagio in silenzio.
Anche il GM ha diritto a fermarsi
In molte conversazioni, emerge un’aspettativa implicita: il GM deve tenere su lo spettacolo.
Deve gestire tutto con eleganza. Non deve mai “rompere l’atmosfera”. Se qualcosa lo turba, deve gestirlo in fiction, con nemici più forti, plot twist, complicazioni.
Ma il GM è un giocatore come gli altri.
E se qualcosa non va – se una scelta lo mette in difficoltà, se si sente forzato, se ha bisogno di tempo per riflettere – ha il diritto di fermarsi.
Non per punire. Non per dettare legge. Ma per chiarire.
Chi non si prende questo spazio, finisce per portare il peso da solo. E prima o poi, lo scarica sulla fiction. Con punizioni implicite, svolte oscure, “giustizia narrativa”.
Lo abbiamo già visto: è lì che nascono le dinamiche tossiche.
Parlare non rompe il gioco. Lo salva.
La paura di interrompere è figlia di un equivoco culturale: l’idea che il GDR debba funzionare come racconto.
Ma il GDR è una conversazione strutturata, non una storia predefinita.
E come ogni conversazione, ha bisogno di pause, chiarimenti, feedback reciproci.
Parlare fuori gioco non rompe l’immersione.
Rompe le zone d’ombra dove nascono i malintesi.
E se fatto con rispetto, non toglie nulla alla fiction. Al contrario: la rafforza.
Conclusione
Proteggere il clima narrativo non deve significare zittire i problemi.
Il vero incanto non è la continuità del racconto. È la fiducia tra i giocatori.
Quella fiducia che permette a tutti – GM compreso – di dire:
“Fermiamoci un attimo. Parliamone.”
Perché il GDR non è uno spettacolo da non interrompere.
È un luogo che va curato. E la cura passa, sempre, dalla parola.