Playtesting: ma è davvero necessario?

Nel mondo del game design, e ancora di più nei giochi di ruolo da tavolo, si ripete come un mantra: “Se non playtesti, non sei un vero autore.”
Ma chi l’ha detto? E soprattutto: è davvero imprescindibile?

La provocazione di questo titolo non è per negare l’utilità del playtesting, ma per riportarlo alla sua giusta dimensione: strumento di metodo, non religione.

“Il gioco migliora attraverso l’iterazione.”
— Jesse Schell, The Art of Game Design

L’illusione del metodo scientifico

“Playtest” suona come qualcosa di rigoroso: dati, laboratori, statistiche.
In pratica, le sessioni di prova avvengono quasi sempre tra amici, con mille variabili incontrollabili, e con il designer stesso che spesso interviene a spiegare.

Il game design, soprattutto nei GdR, è un problema di progettazione di secondo ordine: non disegni direttamente l’esperienza, ma regole da cui l’esperienza emergerà. Non si misura un “dato puro”, ma un frammento di contesto.

Il valore del playtest non è la “scientificità”: è la capacità di restituire indizi contestualizzati, che vanno interpretati con occhio critico.

Il paradosso dell’iterazione infinita

Ogni ciclo di prova porta a miglioramenti. Ma ogni ciclo richiede tempo ed energie.
Schell lo mette nero su bianco: il lavoro di un designer non è mai finito, è solo abbandonato.

La vera sfida è capire quando fermarsi.
Un approccio utile: fissare per ogni test un obiettivo preciso (“voglio capire se questa procedura è chiara”) e stabilire una soglia di stop (“se funziona in tre tavoli diversi, non la tocco più”). Così eviti l’“alfa perpetua” e spingi il gioco verso la pubblicazione.

Autorialità vs. crowdsourcing

Il playtest porta feedback, ma chi decide cosa farne?

Dungeons & Dragons, ad esempio, usa i sondaggi pubblici di Unearthed Arcana: un contenuto è valido se almeno il 70% dei giocatori si dichiara soddisfatto. È un criterio trasparente e utile, ma non sostituisce il giudizio editoriale.

Per i giochi indipendenti, il rischio è maggiore: trasformare la propria voce autoriale in un compromesso statistico. Il playtest deve servire a testare chiarezza e fruibilità, non a diluire l’identità del gioco.

“Lascia spazio al gioco nel design, accettando che alcune assunzioni saranno sbagliate.”
— Eric Zimmerman, Rules of Play

I limiti strutturali del playtest

  • Campioni ristretti: giocare sempre con lo stesso gruppo porta a bias enormi.
  • Feedback contraddittorio: un gruppo chiede più semplicità, un altro più complessità.
  • Facilitatore presente: se è l’autore a spiegare, maschera i problemi reali del testo.
  • Manuale non testato: molti playtest verificano il gioco “parlato”, non il regolamento scritto.

Ecco perché il blind playtest è fondamentale: i tester devono imparare il gioco solo dal manuale. Se inciampano, il problema non è loro: è nel testo.

“Affronta la verità del tuo playtest, anche se fa male.”
— Eric Zimmerman

Alternative (e complementi) intelligenti

Il playtest non è l’unico strumento. Eccone altri che lo rendono più efficace:

  • Prototipi mirati: prova scenari rapidi per una sola meccanica, non intere campagne.
  • Playstorming: simulazioni veloci “a secco” su carta, senza tavolo completo.
  • Test di leggibilità: fai leggere un capitolo a chi non conosce il gioco e chiedi di rispiegarlo.
  • Debrief strutturati: raccogli osservazioni neutrali, non sfoghi emotivi.
  • Open access: condividere presto il materiale con la community allarga i dati e crea pubblico.

Cosa il playtest fa (e non fa)

Fa bene:

  • smascherare ambiguità procedurali,
  • evidenziare problemi tra regole e interfaccia (schede, reference),
  • verificare la comprensibilità del manuale.

Fa male se gli chiedi di:

  • decidere tono e poetica, che sono scelte d’autore,
  • bilanciare il gusto medio, rischiando un gioco senza carattere.

Conclusione: il coraggio di pubblicare

La vera domanda non è se il playtesting sia necessario, ma come e quanto.

Il playtest funziona se serve a rendere chiare le regole, leggibile il testo e coerente l’esperienza. Non può trasformarsi in un dogma che blocca i giochi in eterno o in un tribunale popolare che decide la voce dell’autore.

Alla fine, ci vuole coraggio a dire: “Basta test, il gioco è pronto.”
L’imperfezione non è un fallimento: è la natura stessa dei giochi di ruolo, che vivono e cambiano al tavolo, tra persone reali.

Reazioni nel fediverso

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