“Gliela faccio pagare in gioco”

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Le disfunzioni della comunicazione passiva-aggressiva al tavolo

C’è una frase che torna spesso nei racconti di gioco disfunzionale, magari detta col sorriso, magari a posteriori:
“Vabbè, poi gli ho fatto trovare i nemici al portale.”
“Tanto l’ho fatto fallire con un tiro difficile.”
“Vediamo se ora continua a inventarsi roba.”

Non è una vendetta dichiarata. Non è un conflitto aperto. È qualcosa di peggio: una rimozione del conflitto attraverso la punizione in game, fatta passare per “gestione narrativa”.

È il momento in cui, invece di chiarirsi fuori gioco, qualcuno decide di correggere il comportamento altrui con la fiction.
E così facendo, rompe qualcosa di molto più importante della coerenza narrativa: la fiducia.

Quando la fiction diventa campo di battaglia

Immaginiamo la scena: un giocatore introduce di colpo un elemento non concordato nel background (es. un portale dimensionale segreto). Il Master non reagisce subito. Ma al momento opportuno, fa in modo che il portale sia presidiato da nemici potentissimi. Magari è un’idea brillante, magari “torna utile alla trama”.

Ma sotto la superficie, si legge un’altra cosa:
“Mi hai messo in difficoltà. Ora te lo faccio pesare.”

Questo atteggiamento non è una soluzione. È un messaggio non detto, recapitato sotto forma di punizione diegetica. Il giocatore capisce (forse), ma non si è risolto nulla. Il conflitto resta lì, spostato nel sottosuolo.

Evitare il confronto danneggia il gioco

Il gioco di ruolo si basa su un patto di fiducia: ci affidiamo gli uni agli altri pezzi di immaginazione, azione, autorità. Se qualcosa rompe questo patto – un comportamento, un’invasione di ruolo, un’idea fuori tono – la cosa giusta da fare è parlarne chiaramente.

Non servono sgridate, né umiliazioni pubbliche. Basta una frase semplice, fuori gioco:
“Guarda, quello che hai introdotto non sta nei limiti condivisi. Non lo possiamo usare così.”

Tutto il resto – il “glielo faccio trovare sbagliato”, il “vediamo come se la cava”, il “faccio fallire l’idea” – è comunicazione passiva-aggressiva. E ogni volta che la si usa, si manda il messaggio che è pericoloso esporsi. Che gli errori verranno “corretti” con conseguenze nella fiction. Che non c’è spazio sicuro per sbagliare.

E a quel punto, il gioco smette di essere gioco.

Ruoli e confini poco chiari generano punizioni implicite

Molte di queste dinamiche nascono da un problema a monte: non è chiaro chi può fare cosa.
Il Master non ha detto fin dove arriva l’autonomia dei giocatori. I giocatori non sanno quanto è flessibile l’ambientazione. Nessuno ha chiarito che tipo di contenuto è accettabile.

Il risultato è che i confini vengono scoperti a posteriori, tramite reazione. E la reazione, se non passa per la parola, passa per l’azione in gioco. Che spesso è percepita come arbitraria, ostile, o punitiva.

Serve una sessione zero? Forse.
Ma anche una sessione cinque, sette, dieci. Perché il tavolo cambia, le aspettative si evolvono, e se non ci si parla regolarmente, ci si punisce indirettamente.

Il mito dell’“insegnargli la lezione”

Alcuni GM difendono queste scelte dicendo: “Così impara”, “Capisce da solo che ha sbagliato”, “Gliel’ho fatto pesare, ma in modo elegante”.
Ma il GDR non è un sistema educativo. Non sei lì per “insegnare la disciplina” ai giocatori. Sei lì per far funzionare un sistema condiviso.

E i sistemi condivisi funzionano solo se si dicono le cose.
Se qualcosa ti infastidisce, va detto. Se qualcuno ha valicato un confine, va chiarito. Se un elemento rompe il gioco, lo si mette in pausa e si discute.
Non si “corregge” in fiction. Non si fanno “scherzi punitivi”. Non si aspetta che “ci sbatta il muso”.

Perché il gioco non è un test. È una relazione.

Conclusione

Quando si rompe qualcosa al tavolo, la soluzione non è riscrivere la scena. È parlare.

Ogni volta che punisci un comportamento attraverso il gioco, stai dicendo che non vuoi o non sai affrontarlo fuori dal gioco.
Stai dicendo che il tavolo non è un posto sicuro per chiarire.
E stai dicendo, senza dirlo, che preferisci il controllo alla fiducia.

Ma il GDR funziona solo dove c’è fiducia.
E la fiducia si costruisce con le parole, non con le trame.

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